Dal laboratorio alla produttività: perché l’innovazione impiega tempo a trasformare l’economia


Takeaway

Le grandi innovazioni non producono crescita immediata. Philippe Aghion mostra come, tra l’invenzione di una tecnologia generale e il suo impatto sulla produttività, esista un ritardo inevitabile. Le economie devono prima creare “invenzioni secondarie”, adattare i processi, sviluppare competenze e ridefinire le istituzioni.

Solo allora la tecnologia diventa motore di crescita diffusa.


Il paradosso della tecnologia: invenzione rapida, progresso lento

La storia economica è ricca di episodi in cui l’entusiasmo per una nuova tecnologia ha preceduto di molti anni i benefici reali sulla produttività.

Nel precedente articolo, abbiamo visto come la distruzione creatrice — secondo la lettura di Aghion — rappresenti il motore della crescita economica: la concorrenza erode le rendite e apre spazio alle nuove idee.
In questa analisi approfondiamo il passo successivo: capire perché, una volta nata, un’innovazione impiega tempo per diventare produttiva, e come il contesto economico e istituzionale ne determini la velocità di diffusione.

Dietro questo ritardo non c’è inefficienza, ma un processo di adattamento complesso. Le grandi scoperte — l’elettricità, il computer, oggi l’intelligenza artificiale — non sono immediatamente applicabili in ogni settore. Sono tecnologie generali, che richiedono, per l’appunto tecnologie secondarie, per essere sfruttate pienamente. Quindi ulteriori infrastrutture, competenze, capitale organizzativo, nuove regole.

Aghion riprende qui una lezione schumpeteriana: la crescita è distruzione creatrice, e la distruzione viene sempre prima della piena creazione. Prima che la produttività salga, molte imprese devono sperimentare, fallire, e reinventarsi.

Dalla scoperta all’applicazione: il ruolo delle “invenzioni secondarie”

L’invenzione di base raramente è sufficiente a cambiare un sistema produttivo.
Serve una costellazione di innovazioni minori — invenzioni secondarie — che adattino la tecnologia ai contesti specifici.

Un esempio classico è l’elettrificazione. Quando la corrente elettrica entrò nelle fabbriche alla fine dell’Ottocento, non produsse immediatamente un aumento di produttività. Le aziende si limitarono a sostituire i motori a vapore con motori elettrici, mantenendo lo stesso layout industriale. Solo con l’introduzione della catena di montaggio, della produzione modulare e della distribuzione flessibile delle macchine, l’elettricità rivelò tutto il suo potenziale.

Lo stesso schema si ripete con ogni rivoluzione tecnologica:

  • L’informatica negli anni ’80 portò efficienza solo dopo che imprese e lavoratori impararono a integrarla nei processi decisionali.
  • Internet divenne un motore di produttività solo quando nacquero modelli di business interamente digitali (pensiamo all’ e-commerce). Negli anni ’90, la rete era una straordinaria infrastruttura di comunicazione, ma non generava ancora guadagni di produttività.
    Il vero salto arrivò con la diffusione dell’e-commerce e dei servizi digitali: piattaforme di vendita, pagamenti online, logistica integrata. In altre parole: Internet diventò produttivo solo quando si svilupparono le “invenzioni secondarie” che lo adattarono all’economia reale.
    Amazon, eBay, Alibaba, Shopify — non sono invenzioni tecnologiche in sé, ma innovazioni organizzative e commerciali che hanno reso Internet economicamente rilevante.
    Queste innovazioni “secondarie” — organizzative più che tecnologiche — hanno trasformato Internet da curiosità tecnica in motore globale di efficienza.
    Ancora una volta, l’idea non basta: serve un ecosistema che la renda produttiva.
  • L’intelligenza artificiale, oggi, segue lo stesso percorso: la scoperta è già avvenuta, ma l’adozione produttiva è ancora agli inizi.

Le invenzioni secondarie sono, in un certo senso, la traduzione economica di un’idea scientifica.
È in questa fase che l’innovazione smette di essere un atto tecnico e diventa un fenomeno collettivo, che coinvolge capitale umano, organizzazioni e istituzioni.

Il tempo della diffusione: apprendimento e complementarità

L’altra ragione del ritardo è l’apprendimento. Ogni nuova tecnologia richiede competenze che prima non esistevano: nuove professionalità, nuovi standard, nuove reti di conoscenza.

Per Aghion, la crescita guidata dall’innovazione è un processo di cumulazione di capitale cognitivo. Le economie imparano ad usare le tecnologie solo attraverso la pratica, e ciò genera inevitabili frizioni.
Le imprese devono formare i lavoratori, ridefinire le gerarchie, riscrivere i contratti. Gli investimenti in capitale umano — formazione, ricerca, educazione — sono il vero motore che trasforma l’innovazione in produttività.

Essenzialmente una tecnologia genera valore quando trova, intorno a sé, un ecosistema capace di assorbirla, ovvero, infrastrutture digitali o energetiche adeguate, regole di mercato flessibili, sistemi finanziari adeguati a finanziare la sperimentazione.

Quindi le istituzioni come acceleratori (o freni) dell’innovazione?

In buona sostanza la velocità con cui una tecnologia diventa produttiva dipende in larga misura dalle istituzioni.
In contesti dinamici, dove la concorrenza spinge le imprese ad innovare e le barriere all’ingresso sono basse, la diffusione è rapida.
Al contrario, sistemi economici basati su rendite e posizioni dominanti tendono a ritardare la trasformazione tecnologica: le imprese incumbent non hanno incentivo a distruggere il proprio vantaggio competitivo.

La creative destruction schumpeteriana ha dunque bisogno di istituzioni che favoriscano la distruzione.
Diritti di proprietà intellettuale ben calibrati, mercati del lavoro flessibili ma tutelanti, e un sistema educativo capace di aggiornarsi sono elementi fondamentali.

Il ritardo come fase fisiologica della crescita

Il ritardo tra invenzione e produttività non è quindi un fallimento, ma una componente strutturale dei cicli tecnologici.
Ogni rivoluzione — dall’elettricità al digitale — segue un percorso in tre fasi:

  1. Scoperta e aspettative: entusiasmo, investimenti, ma impatti economici limitati.
  2. Diffusione e adattamento: sperimentazione, riallocazione del capitale, fallimenti.
  3. Maturità e crescita: quando le complementarità sono pronte, la produttività esplode.

Questo schema, osservato da Aghion in numerosi studi empirici, spiega perché le economie innovative alternano fasi di euforia e delusione.
Nel breve periodo, l’innovazione può perfino ridurre la produttività — perché le imprese sperimentano, formano lavoratori, sostituiscono processi. Solo nel lungo periodo emergono i guadagni reali.

È una lezione preziosa per chi interpreta la produttività come termometro immediato dell’efficienza tecnologica: spesso, il termometro è in ritardo rispetto alla febbre dell’innovazione.

Lezioni per la politica economica

Se la produttività segue con ritardo l’innovazione, allora la politica economica deve guardare oltre il ciclo elettorale.
Sostenere la ricerca di base è necessario, ma non sufficiente: servono politiche che favoriscano la diffusione e l’adattamento.

Aghion individua tre assi d’intervento:

  1. Istruzione e formazione continua: il capitale umano è la condizione essenziale per sfruttare le nuove tecnologie.
  2. Finanza dell’innovazione: i mercati dei capitali devono saper finanziare progetti rischiosi e a lungo termine, anche in assenza di profitti immediati.
  3. Concorrenza regolata: proteggere le rendite temporanee dell’innovazione, ma impedire che diventino barriere permanenti.

In sostanza, serve una politica industriale pro-competitiva: non dirigista, ma capace di coordinare investimenti pubblici e privati verso la diffusione delle nuove tecnologie.

L’intelligenza artificiale come test del modello

L’intelligenza artificiale rappresenta oggi una tecnologia generale, dal potenziale trasformativo immenso, ma ancora in fase di diffusione lenta.
Il salto verso una produttività sistemica arriverà solo quando l’IA sarà integrata nei modelli organizzativi e decisionali di ogni settore. Per arrivarci serviranno tempo per l’apprendimento, nuove infrastrutture, nuove competenze e una regolamentazione adeguata.

Il tempo dell’invenzione non coincide mai con il tempo dell’adozione.

Finanza e mercati come veicolo di diffusione

Un aspetto spesso sottovalutato nel dibattito è il ruolo della finanza nell’accelerare la diffusione tecnologica.
Mercati borsistici efficienti, venture capital e strumenti di investimento specializzati permettono di allocare risparmi verso imprese innovative.
In assenza di tali canali, le invenzioni restano confinate ai laboratori pubblici o a poche grandi corporation.

L’innovazione finanziaria, in questo senso, non è un lusso ma un moltiplicatore della produttività:

  • diffonde capitale dove la tecnologia è pronta ad essere adottata,
  • riduce il rischio individuale della sperimentazione,
  • e velocizza il passaggio dall’invenzione al mercato.

Aghion vede nella combinazione tra istituzioni inclusive e mercati finanziari dinamici la condizione essenziale per trasformare l’innovazione in crescita sostenibile.

Dal ritardo alla resilienza: la lezione per il 2025

Oggi, nel pieno dell’era digitale e con la produttività stagnante in molte economie avanzate, il modello di Aghion offre una chiave interpretativa chiara.
Il problema non è la mancanza di innovazione, ma la lentezza della sua diffusione.
Le tecnologie ci sono, ma mancano ancora l’adattamento organizzativo, il capitale umano e la spinta competitiva necessari per sfruttarle pienamente.

Capire questo meccanismo aiuta a leggere meglio le fasi economiche contemporanee: il rallentamento della produttività non è un segnale di esaurimento tecnologico, ma la fase intermedia di un ciclo di apprendimento.
La sfida per i prossimi anni sarà accorciare questo tempo — trasformando l’innovazione da potenzialità a rendimento effettivo.

Conclusione

L’innovazione è il motore della crescita, ma è un motore che richiede rodaggio.
Ogni tecnologia generale attraversa un periodo di latenza, in cui il suo potenziale economico si costruisce lentamente attraverso adattamenti successivi.
Philippe Aghion ci invita a guardare oltre l’istante dell’invenzione e a misurare la forza di un’economia non solo dalla quantità di nuove idee, ma dalla capacità di metterle a frutto.

Il progresso, insomma, non è solo nella velocità con cui inventiamo, ma nella rapidità con cui impariamo ad applicare.


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